La tradizione sessuale violenta gode ancora di ottima salute

Quando ci occupiamo di violenza sulle donne? In occasione delle giornate come l’8 marzo e il 25 novembre, oppure quando i media riportano l’ennesimo episodio di femminicidio. Tra un episodio e l’altro si interviene a macchia di leopardo nelle scuole, come prevenzione, o in qualche incontro pubblico per sensibilizzare la comunità.
Siamo tutti consapevoli che non sono sufficienti questi interventi ma non si riesce ad andare oltre. Oltre: significa intervenire sul modello culturale e sociale, quello della disparità di genere di impronta patriarcale, che dà legalità alla subordinazione femminile in tutti i campi. Che maschera il tradizionale disprezzo per le donne con una ipocrisia adulatoria, una concessione ad alcuni ruoli significativi perché così oggi vuole il ‘politicamente corretto’, ma nella quotidianità mantiene una disuguaglianza esasperante. Basta guardare la differenza di stipendi tra uomini e donne a parità di titoli, la prevalente disoccupazione femminile, l’emarginazione delle donne dal mercato di lavoro dopo una maternità, la quasi esclusiva presenza maschile nei luoghi di potere, le ore di lavoro svolte dalle donne nelle attività domestiche e di cura.
Quando parlo di questa cultura non mi riferisco ad un genere unico, cioè all’uomo, ma al pensiero che uomini e donne condividono ancora oggi nel perpetuare modelli e stereotipi delle funzioni del maschile e del femminile.
Questa non è solo una premessa ma il fulcro dell’argomento perché la disparità di potere tra un genere e l’altro predispone le basi allo sviluppo di lotte e conflitti che autorizzano a dominare o subire: nello specifico il genere maschile ha interiorizzato e fatti propri i meccanismi di dominio sul femminile, anche usando sopraffazione e violenza, e sentendosene autorizzato. D’altra parte la storia ci insegna: le leggi che tutelano le donne sono leggi recenti e ottenute solo dopo dure battaglie femministe. Basti pensare che fino al 1996 lo stupro era reato contro la morale e che nel 2005 una sentenza in un caso di violenza sessuale ha concesso le attenuanti allo stupratore perché la vittima non era vergine.
C’è sempre quindi una responsabilità sociale, di cui tener conto, oltre a quella individuale.
Ed è necessario intervenire sull’una e sull’altra.
Se la battaglia per i diritti è iniziata con le donne che si sono battute per ottenerli, dal voto alle leggi che ne tutelano l’integrità fisica, psichica e sociale, alla presenza di quote di donne in ruoli decisionali;
è stata decisiva con il femminismo che ha modificato le dinamiche relazionali tradizionali e i ruoli delle donne nella famiglia e nella società;
ora è necessario che anche gli uomini se ne facciano carico e diventino direttamente promotori di un cambiamento nelle questioni di genere. E quando scrivo uomini non mi riferisco all’uomo singolo ma alla comunità maschile.
Come sappiamo già, per intervenire e cambiare la situazione, dobbiamo partire da lontano e di strada ce n’è da fare se, come scrive W.R.Inge:
“Il tempo giusto per influenzare il carattere di un bambino è cento anni prima della sua nascita”.
Dobbiamo partire dalle relazioni a casa, a scuola; dall’infanzia; dalla condivisione dei compiti e dei ruoli in famiglia; dal rispetto per l’altra persona che è compagna di vita.
Perché sappiamo che le forme di violenza di un genere sull’altro sono varie; non esiste solo il maltrattamento fisico. Esistono comportamenti sottili fatti di sguardi, sarcasmi e denigrazione che minano l’autostima di una persona. I figli assistono in famiglia a tante forme, mascherate o meno, di violenza e le assorbono, senza volerlo ne vengono contaminati e in età adulta rischiano di riproporle se non c’è stata qualche esperienza di rielaborazione.
Non mancano certo le indagini su cosa sia violenza e sulla percezione che ne hanno gli italiani, però rimangono spesso nel cassetto e non sono neppure conosciute dalla maggioranza delle persone, anche perché l’interesse sul tema della violenza si risveglia solo in determinate situazioni. Una delle indagini a cui mi riferisco è quella del rapporto Rosa Shocking di WeWorld Onlus che mette in evidenza come esista scarsa consapevolezza del fatto che una bambina che assiste ai maltrattamenti e alla violenza sulla madre possa diventare a sua volta, da adulta, vittima di violenza in una relazione affettiva; maggior consapevolezza esiste per le conseguenze sul sesso maschile, cioè come un bambino che assiste a violenza possa diventare un adulto violento.
La trasmissione intergenerazionale della violenza è una cosa dimostrata oramai dalle ricerche ma nella gestione dei rapporti familiari non se ne tiene sufficientemente conto.
Nel 2° rapporto di Rosa Shocking vengono riportati gli investimenti in prevenzione nel biennio 2012-2014 e le criticità. A fronte di campagne di sensibilizzazione del problema ci sono molte carenze.
I punti di debolezza nella prevenzione alla violenza sulle donne identificati dal rapporto sono i seguenti:
• la mancanza di un reale coinvolgimento degli uomini nel dibattito pubblico e come destinatari delle iniziative di sensibilizzazione;
• l’eccessiva presenza di articoli ridondanti nei media;
• la frammentazione e dispersione territoriale nelle attività di prevenzione;
• l’insufficiente prevenzione nelle scuole;
• la mancanza di una strategia nazionale per la prevenzione;
• l’assenza di dichiarazioni e prese di posizione sul problema da parte del governo e delle cariche istituzionali (a parte Laura Bordini, Valeria Fedeli e il Presidente della Repubblica, non ci sono interventi che facciano pensare che il problema sia una priorità nell’agenda del governo).

Intervenire quindi sulle nuove generazioni per portare un cambiamento è indispensabile, anche perché ci sono visioni distorte di cosa sia la violenza, intesa più come aspetto privato e non pubblico.
Un sondaggio Ipsos Italia, nella 2a indagine di Rosa Shocking, riporta opinioni dal mondo giovanile piuttosto pesanti da digerire:
• rileva che circa il 20% circa dei giovani dichiara che quello che accade in una coppia non deve interessare gli altri;
• il 32% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ritiene che gli episodi di violenza vanno affrontati tra le mura domestiche e non devono interessare altri;
• viene legittimato e giustificato dal 25% l’aspetto istintivo legato alla violenza come un raptus momentaneo dettato dal ‘troppo amore’, oppure dal fatto che le donne esasperano gli uomini, o si vestono in maniera provocante.
La tendenza di un giovane su quattro è quindi quella di attribuire responsabilità alle donne.

“I giovani sembrano enfatizzare la necessità di privacy riguardo agli episodi di violenza all’interno della coppia: se sentono i vicini litigare tendono in misura maggiore a non intervenire e sostengono con maggior intensità l’idea che i casi di violenza domestica dovrebbero prima di tutto essere affrontati all’interno della famiglia perché quello che succede in una coppia non deve essere di interesse per gli altri.
I giovani sembrano poi enfatizzare l’aspetto istintivo legato alla violenza, soprattutto in seguito a quello che viene percepito come una provocazione.
La violenza è spesso il frutto di un raptus momentaneo dell’uomo: lo sostiene il 25% dei giovani, con 4 punti percentuali in più rispetto al consenso complessivo.
Ogni tanto gli uomini diventano violenti per troppo amore: non è la ragione a guidare le loro azioni ma il sentimento, la sfera emozionale.
In questo caso il consenso dei giovani è decisamente più marcato rispetto al resto degli italiani.
Il tradimento, il preconcetto che le donne siano abili a far esasperare gli uomini e che gli abiti succinti siano provocazioni, sono aspetti che i più giovani tendono a legittimare come cause di violenza sulle donne.
Un ruolo più attivo della donna è invece riconosciuto soprattutto dai più anziani, seppur sempre all’interno della cerchia famigliare: se una donna viene picchiata dal marito dovrebbe agire lei stessa in prima persona per trovare una soluzione.
In caso di fallimento si può uscire dalla sfera privata e denunciarlo”.

Dai dati generali passiamo alle esperienze vissute e tra tutte mi sembra significativo il seguente caso, da me conosciuto poco tempo fa.
Andrea, nome di fantasia, è un ragazzo di 15 anni segnalato per comportamento violento nei confronti dell’ex fidanzatina. Un giorno l’ha incontrata per caso mentre passeggiava insieme ad un altro ragazzo e ha aggredito entrambi. La ragazzina aveva lasciato Andrea qualche mese prima e lui aveva mal digerito l’abbandono conservando dentro si sé dolore e rancore nei suoi confronti.
La motivazione di Andrea per l’aggressione è quella di essersi sentito provocato da lei perché è andata a spasso proprio in un luogo da lui frequentato abitualmente: doveva starsene lontana! La rabbia ha preso il sopravvento, il sangue è andato alla testa, e l’ha aggredita. Per fortuna senza gravi conseguenze.
La reazione dei genitori di Andrea è quella di giustificare il figlio in quanto ritenuto un bravo ragazzo mentre lei, invece, una ragazza poco seria.
Andrea è di certo un bravo ragazzo, che non ha comportamenti di disturbo o violenti, socievole e con una buona qualità di relazione amicale; come per la maggior parte di ragazzi o uomini violenti non manifesta nessuna psicopatologia. Il suo comportamento sembrerebbe quindi incomprensibile e frutto di un ‘raptus’ (il famoso raptus che giustifica tante cose) dettato dalla provocazione di cui si sente ‘vittima’. La ferita dell’immagine ideale di sé lo porta a non avere nessun controllo delle sue emozioni e ad agire nel comportamento una frustrazione che non è mai stato aiutato ad gestire. Nè in famiglia, né a scuola e nel contesto sociale in cui vive.
“Il comportamento di collera coercitivo, che agisce al servizio di un legame affettivo, è assai comune” scrive Bowlby, e lo osserviamo anche nelle relazioni tra partner; spesso è stato trascurato in ambito clinico perché l’attenzione va alle forme non funzionali, quelle più patologiche, ma esiste e si esprime in quelle realtà di violenza contro le donne che conosciamo. È il lato in ombra di cui gli uomini ‘devono’ prendere coscienza, non è più possibile trascurarlo e l’educazione alle relazioni deve metterlo al primo posto.
È bene ribadirlo: non esiste forma di patologia negli uomini che compiono violenze sulle donne (la violenza non è una patologia, è una scelta; poco è dovuto alla psicopatologia: 3-4 %). Patologizzare fa comodo, aiuta a trovare delle responsabilità che stanno da un’altra parte rispetto a se stessi; è rassicurante, non ci si sente coinvolti troppo. Ebbene no! e prendo in prestito le parole di De André per ribadire il concetto “per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti…”; tutti e tutte siamo coinvolti quando c’è una violenza su una donna.

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