L’arte di legare le persone

 L'arte di legare le persone.
Legare le persone al letto. 
Legare le persone a te.
Legare le persone alla realtà.
Legare le persone a se stesse.
Legare le persone è un'arte.
Inconoscibile.

C’è chi ha paragonato la forma della narrazione all’Antologia di Spoon River e chi a epigrammi; chi ha applaudito alla resa poetica di una materia ostica come quella psichiatrica e chi invece ha respinto inorridito il messaggio neppure tanto implicito: quello del contenimento come cura.

Paolo Milone
L’arte di legare di legare le persone 
Einaudi 2021

Ho letto il libro un anno e mezzo fa, dopo aver ascoltato l’intervista a Paolo Milone a Fahrenheit. Mi ero incuriosita perché, in un primo momento, avevo dato una mia interpretazione al titolo: lo avevo inteso come legare a sé, al terapeuta e alla realtà, nel significato del legame psicologico che si crea nella vita tra le persone. Poi, nel corso della presentazione, ho compreso che il significato di legare era letterale, cioè legare al letto, contenere con la camicia di forza, ed è suonato un campanello d’allarme al pensiero che, dopo tutte le battaglie per cambiare i metodi di cura della psichiatria, si potesse apertamente tornare a rivalutare la contenzione, paragonandola addirittura a un’arte! Una cosa difficile da comprendere per me che, da giovane, sono entrata in contatto con il mondo dei manicomi per aprirli.

Ho fatto il mio ingresso in un ospedale psichiatrico, come tirocinante, nel settembre 1978. Un periodo storico particolare, di grande cambiamento per questa istituzione: a maggio, era stata approvata la legge 180 o legge Basaglia, quella che ha chiuso i manicomi. Ma, poiché non si potevano mettere fuori le persone di punto in bianco, era necessario programmare un percorso di transizione. La facoltà di Padova aveva fatto una convenzione con gli ospedali psichiatrici di Torino per dei tirocini e noi, studenti e studentesse del terzo anno di Psicologia, siamo andati a Grugliasco con l’obiettivo di contribuire al passaggio da un ospedale chiuso ai servizi per le cure territoriali. Lì, invece, abbiamo conosciuto la realtà terribile dei manicomi, dei reparti chiusi, delle persone legate ai letti e di quelle ‘guastate’ da farmaci che le avevano fatte diventare tremolanti nella carne e nella voce; abbiamo conosciuto pratiche devastanti per il corpo e per la mente. Da giovani pieni di speranze e ideali ne siamo usciti disincantati. Quindi un libro che parla del legare, in senso fisico, come di un’arte mi è sembrato sconcertante. Nonostante questa mia cauta disposizione ho deciso di leggerlo e alla fine… ne sono rimasta affascinata!

Il libro non è un saggio, non un romanzo, non poesia, eppure mi è sembrato tutte queste cose insieme e anche altre. Mi ha suscitato profonde emozioni: mi ha divertita, angosciata, incantata e inorridita; soprattutto mi ha sorpreso il modo in cui l’autore ha messo a nudo materie oscure. Eppure ho impiegato tanto tempo, un anno e mezzo, prima di scriverne. Non solo perché finora ho avuto poco spazio di pensiero ‘libero’ ma anche perché non è un libro facilmente ‘traducibile’: si può solo leggere per comprendere la bellezza, l’empatia, l’ironia, l’amarezza del dolore della malattia come può essere raccontata da chi ci ha vissuto vicino/insieme per quarant’anni.

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 “I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene l’ultimo dopo un milione di uguali – per questo noi stiamo dall’altra parte della scrivania”.

Ho letto tutte le critiche che sono state rivolte al testo da una parte della psichiatria e ne ho condiviso il significato, perché sono tuttora convinta che non possiamo arrenderci a pensare alla cura in termini di contenzione. Penso però che Milone non abbia inteso esaltare un tipo di ‘cura’ ma piuttosto raccontare cosa sia la sofferenza psichica e mentale, cosa significhi viverci accanto e prendersene cura; lo ha fatto, in modo anticonvenzionale, mettendo a nudo molte ipocrisie della buona coscienza comune.

Quando si lavora in prima linea si lega per stato di necessità e il contenimento è un metodo di lavoro che ha salvato la vita a pazienti e operatori, scrive. Per questo non ne parla male. La Psichiatria d’emergenza è necessariamente diversa dalla Psichiatria che cura i cronici. Nella Psichiatria d’emergenza si agisce per impedire che “i dementi attraversino la strada col rosso“, che i depressi si suicidino, che i maniacali si buttino nelle gallerie dei treni, che gli allucinati scendano dai poggioli lungo i cornicioni, che i deliranti aggrediscano armati i vicini, che alcolizzati e drogati scatenino liberamente l’aggressività primitiva.

I pazienti agitati e confusi non si possono calmare con le parole. “Sulla contenzione sono state scritte innumerevoli linee guida” ma quando è il momento “il destino fa saltare le linee guida e ci mette alla prova“.

Sono uno psichiatra tradizionale, vecchio stampo, scrive a un certo punto Milone, che crede ancora che il contenimento fisico in certi casi sia necessario. “Vengo da una scuola di legatori“.  Ma, ribadisce, i farmaci sono più pericolosi e ancor di più il non intervento.

La contenzione è un atto violento, toglie la libertà, va abolita e basta” dice Giulia, la psicologa tirocinante. “Giulia, hai ragione” risponde Milone “Ma la violenza e la libertà sono tematiche psicologiche, non psichiatriche. Il paziente psichiatrico in acuto non concepisce il significato di violenza e libertà. Per lui è più rilevante la tematica esistere o non esistere. Talvolta ha bisogno di essere contenuto per ricomporsi nella sua unità, percepirsi, vivere. Se tu gli dai gentilezza e libertà, lo uccidi“.

Se mi chiedete un’immagine simbolica della Psichiatria d’urgenza è proprio il contenere, il riunire frammenti spezzati tra loro, mettere insieme mente e corpo, riunificare la persona, come un gesso rinsalda le ossa. Far di pezzi, uno“. Paragona la contenzione all’abbraccio primigenio della madre che riconosce e contiene in sé il bambino che ha appena partorito, costruendolo in questa matrice. Ma è anche la violenza e follia in un corpo a corpo in cui sono coinvolti entrambi: chi lega e chi viene legato al letto e poi sedato. “Non è cattivo chi lega , legare è faticoso. È cattivo chi abbandona il paziente”.

Sono stati i farmaci ad aprire i manicomi, scrive Milone, e non la pietà delle persone. Prima dei farmaci i pazienti rimanevano legati a lungo, per settimane e ora, invece, restano legati il tempo che il farmaco entri in azione.

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“Se non hai mai provato il dolore psichiatrico, non dire che non esiste. Ringrazia il Signore e taci”.

Vivere a stretto contatto con la sofferenza psichica non lascia incolumi: o la mastichi e la ingoi, anche se qualche pezzo resta indigeribile, oppure la rifiuti e te ne allontani per renderti impenetrabile al dolore. Milone ha vissuto ore, giorni, anni con persone che erano sommerse dal dolore di vivere e, dal modo di raccontare questa realtà, si capisce che quel dolore lo ha compreso e filtrato. Ne scrive con discrezione, con rabbia, con rispetto.

“Rubo intimità, ma non me ne approfitto”.

Chiama i suoi pazienti per nome, li descrive nei comportamenti e nelle frasi che dicono; nella relazione e negli affetti che si vengono a costruire, nelle emozioni che si attivano. Dà loro un’identità che non è identità di malattia ma di persona unica e irripetibile. Sono donne e uomini prima che sintomi  e categorie psichiatriche. Si chiamano Lucrezia, Luciano, Chiara e, scrivendo di loro come scrive, Milone sembra mettersi dalla loro parte (anche se la sua è quella del tiro di dadi riuscito bene).

“Lucrezia, da tre mesi mi telefoni tre volte al giorno, / per essere sicura che sei viva. / Lucrezia, ora vengo lì e ti ammazzo io”.

“Filippo, tu hai bisogno di confini più che di ossigeno, perché l’identità è un confine. E così io, che sono anarchico per natura, sono costretto a costruire pareti. Prima dentro di te, come stanze in una casa. Poi tra te e fuori di te. E che siano muri spessi, belli alti. La libertà di abbattere i muri, la cerchiamo dopo”.

Scrive anche di diagnosi, di categorie e di sintomi. Le sue sono descrizioni simpatiche, ironiche, amare. Sintetiche.

“Marcello, fare una diagnosi è anche questione di distanza. Gli euforici, sempre scattanti e vestiti d’estate in pieno inverno, si riconoscono a quaranta metri. Gli ubriachi e i tossicomani, con i loro movimenti sbandati, a trenta metri. Gli schizofrenici, movimenti manierati e abiti strano, a venti metri. I depressi, cerei e immobili, a dieci metri. I nevrotici a partire dai cinque metri, ma alcuni mascherano bene e si scende ai due metri. Certi nevrotici sono perfidi e bisogna guardarli negli occhi per capirci qualcosa: un metro. Altri non parlano, sono confusi e bisogna arrivare a cinquanta centimetri per annusarli. Di meno è inutile. Alcuni ansiosi, isterici, insufficienti mentali ti vengono loro sotto, sui trenta centimetri. I perdigiorni e i rompicoglioni ti alitano in faccia. Sotto i venti centimetri c’è solo mia moglie”.

Frammenti di coscienza, insomma, e un susseguirsi di libere associazioni

 “C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa più brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora più brutta. Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite: Psichiatria è una tana”.

Giulia, “tu sei una giovane psicologa tirocinante, non puoi parlare per due ore con una psicotica. Con lei, per due ore, puoi giocare a carte, a palla, fare giardinaggio, passeggiare, guardare la tv, ma non parlare. Dopo un’ora si diventa matti”.

 “… i pazienti mi dicono: beato lei che ha le chiavi. Sì, ho le chiavi, ma sono sempre qui”.

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Verso i colleghi è sarcastico, anche corrosivo.

“I pazienti mi lavorano ai fianchi, ma chi mi dà il colpo di grazia sono i colleghi”.

“Gli euforici sono ambiziosi, sfrontati e instancabili, l’euforia aiuta a fare carriera”.

Non manca la critica a una sanità che è diventata azienda ed è attenta ai costi più che alla salute e alle persone.

 “Si parla di diminuire il numero dei posti letto del reparto in un clima di contentezza generale. I dirigenti sono contenti perché spendono meno, gli infermieri sono contenti perché lavorano meno. Ma io che sono medico, perché dovrei felicitarmi? Perché lavoro meno? Così vago per spazi vuoti, sento cadere la pioggia, sbattere gli alberi alla finestra. É la nuova Psichiatria. Non c’è. Che felicit”.

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Infine le pagine su Genova sono frammenti bellissimi che raccontano una città che “non è una città quadrata, è una città storta: c’è sempre una scorciatoia più corta”.

Come in tutte le città del mondo ci sono però sofferenze nascoste, senza voce, pazienti rintanati in casa, irraggiungibili e refrattari a qualsiasi cura.

Non li vedrete mai. Non li sentirete mai. Non sospettate neppure la loro esistenza. Eppure sono tanti: centinaia, migliaia in una città. Stanno chiusi nella loro stanza. Sopravvivono per anni. Se non svuotano i pitali dalla finestra, se non picchiano i genitori, se non urlano la notte dal poggiolo o sul pianerottolo, possono restare sulla loro isola anche venti, trent’anni, come Robinson Crusoe”.

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Lavorare con la malattia mentale fa male se sei empatico e provi sentimenti di umanità. Riesci a reggerne il carico emotivo se diventi consapevole di quanto la sofferenza del vivere riguardi ognuno di noi, anche se con gradazioni diverse, anche se ti trovi dalla parte del ‘tiro di dadi riuscito bene‘.

 

7 Comments

  1. Leggerò sicuramente questo libro, appena mi sentirò in grado di ricordare. La tua restituzione, per ora, mi basta per tanto pensiero, dolore, affetto, desolazione, fallimento e qualche goccia di miele, qua e là.
    Un abbraccio

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  2. Non ho letto il libro, soprattutto perché anche a me, cresciuta negli anni basagliani, l’idea del “legare” le persone provoca ripulsa. Vero, comunque, che anche i farmaci sono un modo appena più gentile di “legare”. La prigione chimica… Insomma, avere a che fare con i pazienti psichiatrici è sicuramente molto, molto difficile.

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    1. Leggendo il libro ho ricordato un episodio in cui mi sono trovata coinvolta in ospedale psichiatrico da tirocinante. Siamo entrati in un reparto maschile chiuso e, in mezzo allo stanzone, un uomo grande e grosso era seduto in una specie di poltrona e sembrava catatonico, imbambolato. Improvvisamente si è alzato e, con una velocità impressionante, ha preso per il collo la collega tirocinante che era vicino a me. Se non c’erano gli infermieri e bloccarlo e legarlo l’avrebbe strozzata. Non so cosa gli abbia stimolato questa ragazza, quale ricordo abbia riattivato in lui ma certo è stata un’esperienza spiacevole a dir poco. In quei casi lì, continuo a chiedermi, che faresti?
      In ogni caso sono convinta che la chiusura di istituzioni che praticavano metodi di tortura spacciati come cura sia stata necessaria. Solo che è mancata la fase successiva e ancora oggi è incompleta e non risponde alle necessità

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