La figlia ideale (La madre de Frankestein)

Agonia e morte di Aurora Rodriguez Carballeira  
nell'apogeo della Spagna nazionalcattolica.  
Manicomio femminile di Ciempozuelos,  
Madrid, 1954 - 1956 

Non capisco. Non capisco quest’abitudine di cambiare i titoli dei libri stranieri, anche quando sono facilmente traducibili. La madre de Frankestein, titolo originale del romanzo, è diventato per noi in Italia, La figlia ideale. Ancora mi chiedo il perché. Non ne ho trovato il senso pur se mi sono interrogata fino all’ultima pagina.

Mi chiedo anche se questo ribaltamento di prospettiva, da una madre-mostro a una figlia-ideale, non sia il tentativo di distogliere lo sguardo da un tema che inquieta: le madri non sono perfette e non sono sempre buone come le dipingiamo, sia quelle umane che quelle simboliche. In questo romanzo Almudena Grandes, una narratrice straordinaria, ne racconta due: una donna che uccide la figlia e una madre-patria che uccide i suoi figli, toglie loro la voce e la scintilla del pensiero.

La prima si rifà ad una donna realmente esistita: Aurora Rodríguez Carballeira nel 1933 aveva ucciso la figlia Hildegart, una ragazza di diciotto anni di precoce e profonda intelligenza che aveva seguito una strada diversa da quella che aveva programmato la madre per lei, con quattro colpi di pistola. Da questa donna l’autrice è partita a costruire una trama.

«La madre de Frankenstein è un romanzo inventato costruito su fatti reali» ha scritto Almudena Grandes «La mia ispirazione originaria viene, ovviamente, dalla vita e dalla morte di Aurora Rodríguez Carballeira, una realtà che sembra un’allucinante, persino delirante trama di un romanzo».

La seconda è la Spagna, una madre collettiva trasformata in matrigna dalle storture che hanno caratterizzato la sua epoca più buia. E questa è Storia. Resa appassionante nel romanzo dall’intreccio di personaggi e fatti reali con altri immaginari; dalla prospettiva inusuale capace di rendere l’atmosfera polverosa della vita nella Spagna franchista. In Italia abbiamo avuto Mussolini e il fascismo e possiamo comprendere alcuni aspetti di quella dittatura. Non tutti, perché da noi il ventennio fascista si è concluso con una guerra e una sconfitta mentre in Spagna il franchismo è durato quasi quarant’anni, dal 1939 al 1975, e si è concluso con la morte naturale di Franco e la transizione al sistema monarchico. Come fosse stato normale.

Il romanzo

Pubblicato nel 2020 è il quinto libro della serie storica ‘Episodi di una guerra interminabile’ che raccontano la Spagna franchista attraverso alcuni personaggi.

La storia è narrata in prima persona da tre protagonisti.

Quello che tiene le fila è un personaggio di fantasia: Germán Velazquez, giovane e brillante psichiatra che nel 1953 torna in Spagna. Era fuggito quindici anni prima dopo che il padre, cattedratico di Psichiatria all’Università centrale di Madrid, era stato condannato a morte alla fine della guerra civile e si era suicidato in carcere prima dell’esecuzione della sentenza. Aveva trovato ospitalità in Svizzera presso Samuel Goldstein, un collega tedesco del padre, fuggito a sua volta dalla Germania con la famiglia in quanto ebrei, poco prima della promulgazione delle leggi razziali. Quindi Germán ha vissuto da esule tra esuli, avendo però la possibilità di completare gli studi e trovare lavoro in una clinica. Si era distinto nella sperimentazione di un farmaco per la cura della schizofrenia: la clorpromazina, un antipsicotico che riduce i sintomi importanti della malattia e il cui uso non era ancora diffuso. Così Germán viene invitato a tornare in Spagna per applicare la nuova medicina nel manicomio femminile di Ciempozuelos. Qui ritrova una donna che era stata paziente del padre: Aurora Rodriguez Carballeira, la più famosa figlicida della Spagna, e diventa il suo psichiatra.

Aurora Rodriguez Carballeira è l’altra voce del romanzo. La sua è una storia vera e i dati reali sono il processo e la condanna per l’uccisione della figlia. A seguito della diagnosi di paranoia è stata internata, nel 1935, nel manicomio di Ciempozuelos, dove è morta dimenticata. “La sua cartella clinica era la numero 6966”.

Una storia non facile da comprendere, sulla quale si sono interrogati in molti: “attorno alla madre di Hildegart, alla sua vita, al suo delitto e al suo destino, si sono intrecciate un discreto numero di storie, alcune false e parecchio belle, altre vere e molto più brutte“.

Il romanzo ricostruisce la figura di questa donna mettendo insieme dati reali e altri supposti. Donna Aurora era colta e intelligente, seguace delle teorie eugenetiche; aveva concepito una figlia, l’aveva educata nel modo migliore, tanto da venire considerata un piccolo genio, e poi l’aveva uccisa, quando Hildegart le aveva detto che se ne andava.

La madre di Hildegart aveva raccontato la sua assoluta certezza di aver concepito una femmina, il minuzioso processo con cui aveva scelto l’uomo con il quale l’avrebbe generata, la successiva delusione per la sua condotta, i vani tentativi di modificare il sesso del feto con il potere della mente e, soprattutto, il senso di sconfitta che aveva provato nello scoprire che il seme cattivo di quell’individuo era stato più forte della sua amorosa determinazione di dare vita a una donna nuova, redentrice dei vizi e delle sofferenze dell’Umanità“.

«Hildegart era opera mia, spiegò donna Aurora, e non mi è venuta bene […] Ho fatto solo quello che fa un artista quando capisce di aver sbagliato e distrugge il suo lavoro per poter ricominciare. […] Era una persona, lo è diventata perché così ho voluto io, ma non era completa. Non poteva esserlo, dal momento che l’ho plasmata io, insufflandole il mio spirito […] Nell’attimo esatto in cui ha smesso di esistere, l’anima che io le avevo dato è uscita dal suo corpo ed è tornata nel mio […] Adesso sono rientrata in pieno possesso della mia anima».

Maria Castejon, la terza voce, è una creazione dell’autrice “che però evoca una bambina reale, la nipote del vero giardiniere del manicomio femminile di Ciempozuelos negli anni Quaranta“. Infermiera ausiliaria nel manicomio si prende cura di Donna Aurora e le fa da lettrice, nonostante venga ricambiata con disprezzo. Prova gratitudine verso questa donna perchè le ha insegnato a scrivere, a leggere aprendole la strada della cultura e dell’autonomia di pensiero. È l’unica che si avvicina a quella paziente che “non piace a nessuno, perché li innervosisce”. Maria ha una capacità particolare di risolvere le crisi perché non ha paura delle internate, le conosce fin da piccola e le capisce.

Almudena Grandes è una narratrice straordinaria e i suoi personaggi acquistano forma e consistenza fino a sembrare reali. Quando si concentra su qualcuno gli dà storia, radici, pensieri e sentimenti. E carne. Poi passa a un’altra, e poi a un’altro ancora, ma non sembra che ci siano personaggi minori perché tutti diventano importanti, tutti svelano lati fragili e ombre a creare spessore.

Se la figura in primo piano è “Donna Aurora Rodriguez Carballeira, quella pazza assassina, quel mostro che la società aborriva“, avanzano pian piano, fino a stagliarsi nette sulle pagine e nell’immaginazione, altre figure.

C’è suor Belen la superiora, autorità religiosa del manicomio femminile che si rivela una donna intelligente e piena di umanità. “Non era una donna gioviale. Era intelligente, sincera, onesta ma non affettuosa, e neppure simpatica. Non era facile vederla ridere” ma capace di interesse reale, umano verso le donne ricoverate. Sta dalla loro parte. E raccomanda a German di prendersene cura: «per loro, per tutte queste donne così sfortunate che meritano un’altra occasione […] Ed è questa la cosa più importante, che stia dalla loro parte, perché sa quanto soffrono».

Ci sono Samuel Goldstein e la sua famiglia: le figlie Elsa e Rebecca e la moglie Lili, che accolgono Germán in Svizzera presso di loro.

C’è Rafaelita, una delle figure più tragiche: giovane e bellissima schizofrenica che i rumori nella testa isolano dal mondo; fragile vittima di un sistema repressivo e inumano.

C’è Pastora: «una sconosciuta che mi rubò gli occhi e non me li restituì più» dice Germán. Pastora è una donna forte e autonoma ma profondamente infelice per la perdita del marito, un militante Comunista infiltrato nella Guardia Civil.

Infine ci sono la vita nella Spagna franchista e nel manicomio femminile di Ciempozuelos che, insieme ad Aurora Rodriguez Carballeira rappresentano la vera ragione del romanzo.

La Spagna franchista

«Ma come cazzo ti è venuto in mente di tornare, quando tutti noi non sogniamo altro che fuggire lontano a gambe levate?» si sente chiedere Germán al ritorno in Spagna, e si rende conto ben presto che l’atmosfera è polverosa, che non bisogna fare domande né aspettarsi risposte.

La cosa migliore da fare, nella Spagna del 1954, era tenere il becco chiuso. Che, quando proprio era inevitabile, si poteva parlare del tempo, sembra che domani rinfreschi, oggi sì che fa freddo, se ricomincia a piovere il raccolto di ciliegie di mio suocero andrà perduto. Che il silenzio era l’unico valore sicuro, l’unico rimedio efficace contro la rovina, per probabile, ipotetica, o addirittura inesistente che fosse, l’inaffidabile ricetta a cui si attenevano nello stesso modo ricchi e poveri, umili e potenti […] Che molti giovani si sposavano senza voler conoscere le idee politiche della persona a cui si univano finché la morte non li avesse separati. […] Che la mattina, quando li vestivano per portarli a scuola, le madri ricordavano ai bambini di non riferire agli amichetti neanche una parola di quello che sentivano in casa, Che la notte, anche se le persiane venivano abbassate, chiedevano ai figli, e soprattutto alle figlie maggiori, di spegnere la luce perché qualcuno non li vedesse dalla strada e scoprisse che amavano leggere a letto […] Che la frase che si sentiva più spesso in tutte le case era «Qualsiasi cosa accada, per quello che ti sta più a cuore, tu non farti notare» . Che se il nostro paese fosse stato un essere umano, lo avremmo ricoverato entrambi a Ciempozuelos da anni, e l’avremmo ormai arrostito a forza di elettroshock“.

La Spagna non assomigliava a nessun paese civile. Era”Il feudo di un generale fascista ben issato sulla groppa della Chiesa cattolica“.

I corsi di Cristianità facevano del sesso “un articolo da mercato nero, del piacere un’attività clandestina, del corpo un’arma del delitto“; svuotavano il cuore delle donne per riempirlo di colpe; intossicavano l’immaginazione delle ragazze, umiliavano il desidero, snaturavano “l’allegria trasformandola in vizio, la felicità trasformandola in debolezza, la pelle, facendone un ponte per l’Inferno. Era davvero uno schifo di verità, un carcere portatile che imprigionava i sensi, il corpo e la mente di tutti gli spagnoli“.

Era una verità meschina, sporca, una verità spagnola“.

Il fatto che molti spagnoli avessero perso la guerra significava la rassegnazione, l’accettazione di un destino duro, le botte, la rabbia: “erano il bottino più prezioso tra tutti quelli conquistati da Francisco Franco“.

Alla fine della seconda guerra mondiale c’era stata l’attesa che gli Alleati intervenissero anche in Spagna e cacciassero Franco dal Pardo. Ma la speranza che venisse ristabilita la Repubblica e la democrazia è stata subito delusa. “Negli anni Quaranta la gente non aveva niente da mangiare, ma aveva ancora la speranza. La fede nutre più del cibo e noi eravamo ancora convinti che, se avessero vinto la guerra, gli Alleati avrebbero invaso la Spagna. Ci aspettavamo tutti che andasse così, e quella convinzione ci aiutava a sopportare la fame, la prigione, le legnate“. Ma non è successo e gli spagnoli hanno continuato a vivere senza aspettarsi più niente di buono, senza il coraggio di aspirare ad altro, rassegnati.

« Ce le hanno suonate forte, Germán. Ce le hanno suonate così forte  che molti si accontentano di non prendere più altre botte. E gli altri, quelli come noi, rischiano tutti i giorni, anche se per me è una compensazione, è naturale. Perché anche se viviamo in un cimitero, alcuni di noi sono ancora vivi».

La psichiatria in Spagna

Come in ogni ambito della vita anche in quello della cura della malattia mentale, soprattuto in quello, c’è stata una grande ‘epurazione’: molti psichiatri sono morti, come il padre di Germán, altri esulati; altri fuggiti all’estero e chi non ha potuto si è chiuso in casa. Lo Stato franchista patrocinava dottrine eugenetiche e una morale ultracattolica che interferiva continuamente nella pratica psichiatrica. “Freud era un autore proibito in Spagna. Si studiava a malapena all’università, nelle librerie i suoi testi erano introvabili” e anche solo a menzionarlo si sarebbero chiuse le porte di ogni equipe diretta da psichiatri più prestigiosi della Spagna.

Il manicomio femminile di Ciempozuelos, dove si svolge la vicenda del romanzo, “era un modellino in scala della società a cui apparteneva, la miniatura patologica di un paese malato”. Tra le tante donne che vi finivano ricoverate a vita c’erano le mogli di uomini potenti che erano riusciti a farle internare per togliersele di torno. E, si sa, le pazze finiscono in fondo a tutte le liste, senza diritti e senza più voce. Dimenticate.

Ne La nota dell’autrice, a fine libro, Almudena Grandes racconta le fonti, i testi di riferimento e parla degli psichiatri che nella Spagna di Franco avevano deciso il corso della disciplina: “Antonio Vallejo Nájera, colonnello dell’Esercito nazionale, e Juan José López Ibor, membro dell’Opus Dei, entrambi rappresentanti dei due grandi pilastri di quell’obbrobrio ideologico noto come nazionalcattolicesimo, nemici inconciliabili e, allo stesso tempo, intimi alleati nell’esercizio di un potere quasi assoluto“.

Brutti personaggi che hanno asservito la scienza al potere in modo brutale. Hanno sviluppato il pensiero criminale dell’eugenetica in una maniera tutta spagnola.

L’unico aspetto che distanziava Antonio Vallejo Nájera dai seguaci tedeschi dell’eugenetica che avevano fornito un sostegno teorico al terrore nazista riguardava la sterilizzazione. Vallejo era un fervente cattolico e non poteva ammettere che qualcosa o qualcuno interrompesse l’opera di Dio. Tutti i bambini nati in Spagna dovevano restare in Spagna. Solo dopo subentrava la volontà degli uomini. Lo stato franchista, non per niente ai suoi vertici c’era un caudillo unto dalla grazia dell’Altissimo, perfezionava la volontà divina strappando i neonati a genitori inadeguati per affidarli a famiglie che invece li meritavano“.

Le teorie eugenetiche sviluppate da Vallejo diedero avallo teorico al furto dei neonati che venne praticato per tutta la durata della dittatura franchista, prima nelle carceri, strappando i bambini dal ventre delle prigioniere politiche, e poi nelle cliniche private e in situazioni molto meno drammatiche di quelle narrate nel mio romanzo. Spesso bastava che una donna si recasse da sola in certe cliniche perchè ne uscisse senza il bambino che aveva appena partorito e con un falso certificato di morte della prole, che sarebbe poi stata cresciuta in una famiglia estranea, senza mai conoscere i veri genitori. E anche se non si possono attribuire responsabilità dirette a precisi ordini religiosi o alla Chiesa cattolica come istituzione, bisogna anche ammettere che le ultime rigorose ricerche hanno spesso evidenziato la presenza di sacerdoti o suore al fianco dei medici nelle reti del traffico di minori nella Spagna di Franco e anche dopo“.

Le ultime parole che Almudena Grandes ha scritto alla fine del libro, datate 18 novembre 2019, sono dedicate alle donne spagnole.

Un romanzo che vorrebbe anche raccontare la vita di tantissime donne spagnole, tutte diverse e tutte simili, tutte ugualmente vittime delle conseguenze meno visibili, meno considerate, della lunga dittatura del generale Franco. L’alleanza tra lo Stato e la Chiesa cattolica scatenò su di loro una repressione intima, apparentemente invisibile, che le imprigionò e ne condizionò la vita privata, limitò in modo feroce la loro libertà per impedire che fossero felici mentre lavoravano come bestie in cambio di stipendi da fame e senza nessunissimo diritto, e le indusse a vergognarsi del proprio corpo al punto che persino portare le maniche corte era considerato peccato.

Alla memoria di tutte quelle donne, che non poterono nemmeno osare prendere decisioni autonome senza essere definite puttane, che passarono dalla tutela dei genitori a quella dei mariti, che persero la libertà di cui avevano goduto le loro madri per arrivare tardi a quella riconquistata da noi figlie, ho scritto questo libro”.

5 Comments

  1. Non ho mai letto Almudena Grandes, ma se un giorno dovessi farlo inizierei proprio con questo libro, che hai presentato in modo molto interessante. L’estratto che riporta le condizioni di vita sotto il regime franchista è davvero efficace, rende bene l’idea del timore, del sospetto, del senso continuo di costrizione che viveva la gente all’epoca, e poi tutta quella faccenda sulle donne, sui ricoveri coatti e i neonati rubati, davvero tremenda. È stato un periodo nerissimo, come quello di ogni fase storica che vede il crollo dei valori etici e democratici. E dispiace ogni volta constatare l’atteggiamento acquiescente della chiesa cattolica nei confronti del potere.

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    1. Ciao Alessandra ti ringrazio per le tue osservazioni e mi scuso per il ritardo nella risposta. In questo periodo sto seguendo lavori di ristrutturazione della mia casa e ho un trasloco sulle spalle e un altro in arrivo per cui il tempo è veramente poco e mi dispiace tanto di frequentare poco questo luogo che è il blog. Spero di ritornare presto

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    1. Ciao wwayne ti ringrazio, mi sento molto lusingata per il tuo apprezzamento. Mi scuso del ritardo nel rispondere ma ho un trasloco sulle spalle e lavori per la casa da seguire. Spero di tornare attiva qui a breve.

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      1. Non preoccuparti, anch’io sono molto impegnato. Nonostante ciò stamani ho trovato il tempo di pubblicare un nuovo post (molto ironico): spero che ti strappi qualche risata! 🙂

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