Appunti per un naufragio

A Lampedusa, un pescatore mi aveva detto: «Sai che pesce è tornato? Le spigole».
Poi si era addumàto una sigaretta e se l’era svampata tutta in silenzio.
«E sai perché le spigole sono tornate in mare? Sai di cosa si nutrono? Ecco».
Aveva spento la sigaretta e se n’era andato.
Non c’era niente, davvero, da aggiungere”.

Non si può raccontare, ho pensato. Sembrano note sparse del naufragio della vita.
images.jpegLeggere Appunti per un naufragio è come ascoltare le voci di chi ha incontrato la disperazione di persone alla ricerca di salvezza e di una vita degna; le voci di chi si è trovato a prestare soccorso senza riuscire, spesso, a salvare le vite.
In che modo si può comprendere la vastità del dramma e l’impotenza che si prova di fronte alla sofferenza e alla morte altrui? Davide Enia ha cercato di tradurre lo sconcerto accostandolo al dolore molto personale per la malattia e la perdita di una persona cara e questo senso di smarrimento accompagna le tante, troppe morti accadute nel Mediterraneo. Per noi sono un’eco lontana, che arriva attutita e filtrata dalle notizie dei media, ma il libro di Enia ci porta al centro di quanto avviene in quell’angolo di mondo che è Lampedusa.

In realtà non lo volevo leggere, questo libro.
Quando ho sentito l’intervista all’autore su Radio Tre, quest’estate, sono rimasta impressionata e ho pensato come i picciriddi di Lampedusa, quando Enia ha chiesto loro di accompagnarlo al Centro dove stavano quelli sbarcati: «Manco morti». Ecco, anch’io ho fatto lo stesso pensiero. Perché l’argomento è cruda realtà che, come tanti, rimuovo e lascio ai confini della coscienza. Poi si fanno anche le campagne quando le notizie dei naufragi superano questi confini, ma nella quotidianità c’è poco spazio.
Nella vita, però, le cose succedono e un giorno di autunno mia figlia Leda mi dice che sta leggendo un libro molto bello, consigliatole dalla sua collega in biblioteca. Un libro da leggere assolutamente, insiste, per come è scritto e per quello che racconta «è un libro da leggere perché ti apre gli occhi».
Quindi prendo e leggo, senza fare nessun collegamento con l’intervista ascoltata in estate. Dalle prime pagine qualcosa mi torna alla memoria… ma ormai mi trovo ‘imbarcata’ in questa storia che, più che romanzo, mi sembra documentario, con punte di introspezione autobiografica. Sono vari i livelli del libro ma, in primo piano, c’è Lampedusa e ci sono gli sbarchi.

Enia sta “cercando materiale su cosa accade sull’isola” e vi si reca con il padre, con il quale scopre che si possono anche dire parole che sono difficili nella quotidianità, perché coperte dal pudore.
La sua ricerca ci fa conoscere gli abitanti di Lampedusa che non possono, come noi, far finta di niente, ma si trovano, loro malgrado, arruolati tra le prime file dei soccorritori.
Riprendendo in mano il libro, per rileggere alcuni passaggi che mi ero segnata, mi sono commossa spesso e ho pensato che è necessario sapere tutto quello che le pagine dei giornali non dicono.

Lampedusa è un contenitore di opposti”.
È una di tre isole che formano l’arcipelago delle Pelagie; le altre due sono Linosa e Lampione, un isolotto disabitato. Questo piccolissimo arcipelago è il punto di incontro tra l’Africa e l’Europa
“Linosa è Europa, ha origine vulcanica, infatti è piena di crateri. Lampedusa, invece, non ha origine vulcanica perché appartiene alla placca tettonica africana […]. Tecnicamente è un rilievo della placca tettonica africana”.
L’isola più a sud d’Europa è una terra emersa dalle acque e fa parte dello stesso pezzo di terra dell’Africa.
“Nel tratto che separa Lampedusa dall’Africa, il fondale è basso, trenta metri per lo più, a volte si arriva fino a cinquanta metri. A nord dell’isola invece, andando verso l’Europa, il fondale crolla di colpo, va giù immediatamente a quattrocento metri, che diventano anche mille e passa. C’è praticamente un burrone tra i due continenti, che però sta scomparendo, perché, come sai, è in atto un avvicinamento inarrestabile: l’Africa e l’Europa sono in regime di compressione. I due continenti si stanno scontrando […]
…quanto sta accadendo oggi nel Mediterraneo può essere letto come un semplice anticipo del futuro: ciò che fu separato, sta unendosi. Il movimento, lo spostamento, la migrazione appartengono alla vita stessa del Pianeta. Migrano gli uccelli e migrano i pesci, si muovono i mari e si spostano le mandrie e i continenti. Succederà. Sta già accadendo. L’Africa arriverà e si adagerà sull’Europa e su ciò che ne resta”.

A Lampedusa, a seguito degli sbarchi, è sorto un Centro per ‘accogliere’ questi naufraghi della vita.
“Il Centro
è una struttura presidiata dalle forze di polizia dentro la quale non si può accedere senza autorizzazioni speciali”.
“«È cambiato qualcosa nel Centro in questi anni?», chiesi a Paola.
«Il nome. Prima si chiamava Centro di Permanenza Temporanea, poi Centro di Identificazione ed Espulsione, ora è un Centro Hot Spot, qualunque cosa significhi. Cambiano i governi, mutano i nomi, ma la struttura rimane sempre quella: può contenere 250 persone, in un regime di emergenza può arrivare massimo a 381 posti letto. Questi sono i numeri, i bagni non aumentano, i letti neanche. E nel 2011 furono stipate là dentro oltre duemila persone, per giorni e giorni, senza che fossero informate su cosa sarebbe accaduto loro. Il mondo applaudiva alla primavera araba e poi ne imprigionava gli attori. Era questa la risposta migliore che avevamo saputo offrire alla loro domanda? E lo sai cosa si ottiene tenendo rinchiuse troppe persone in uno spazio così ristretto? Rabbia. È così che si creano le bestie. E, infatti, esplose una rivolta, con i materassi bruciati e un’ala incendiata»”.

I racconti

C’è Paola che sembra un Virgilio che guida Dante/Enia nei gironi del’Inferno e del Purgatorio (in questa realtà il Paradiso non esiste) e, con lei, Melo.
Il primo sbarco, nel 2004, li ha presi di sorpresa e la prima reazione è stata di paura:
«Predicavo bene ma nel momento giusto stavo razzolando malissimo. Io già da prima avevo le mie idee da intellettuale di sinistra: bisogna accogliere, non si deve avere paura. poi nel momento in cui mi ci sono trovata dentro, minchia…».
La paura è un meccanismo mentale che appartiene a tutti:
“Esistono due istinti, solo che uno precede l’altro: il proteggersi e l’aiutare il prossimo, perché, anche quello di aiutare è un istinto. La paura del diverso, di quello che non conosci, qualunque cosa esso sia, umano, animale, naturale, è normale”.

Simone, il sommozzatore
“«Se hai davanti a te tre persone che stanno andando a fondo e cinque metri più in là sta affogando una madre con un bambino, che fai? Dove vai? Chi salvi prima? I tre qui davanti o la madre con il neonato che stanno lì?».
Era una domanda smisurata”. 

Il ragazzo etiope racconta il viaggio:
“Il Sahara è come il Mediterraneo, pieno di ossa di chi, in fuga, ha provato ad attraversarlo”. Bemnet si chiama il ragazzo e, nel 2008, a diciassette anni è scappato per non essere arruolato a un servizio militare a tempo indefinito. Ha attraversato il Sahara, fino alla Libia ed è riuscito, non sa neppure lui come, a imbarcarsi in un gommone nel 2009. Dopo ventun giorni di naufragio è sopravvissuto e ha toccato terra a Lampedusa. Erano partiti in ottanta e sono rimasti vivi in cinque.

Il dottor Pietro Bartolo,
che di specializzazione è ginecologo, ha assistito a morti più che a nascite
“Il dottore Bartolo si è fatto negli anni tantissimi approdi, quasi tutti” e dice:
«Scrivete, andate in giro a raccontare cosa avete visto perché ce n’è bisogno, in Continente non hanno le idee chiare su cosa stia accadendo davvero, ma non intendo cosa accade qui a Lampedusa, quest’isola è soltanto un punto di passaggio, la tappa di un’odissea, mi riferisco piuttosto a cosa accade davvero a ‘sti poveri cristi che arrivano qui, le atrocità che sono costretti a subire, la mortificazione della loro esistenza, lo svilimento dei sogni e delle speranze».

Enia ha assistito a più di venti sbarchi e ricorda il primo, quando ha visto scendere ragazze giovani, molto giovani: venti, quindici, dodici anni.
E gli svenimenti. Disidratate, svenivano una dietro l’altra appena toccato terra
“Erano più di duecento. Erano confuse e intimorite, proprio come i bambini. Alcune si accorsero degli svenimenti, altre no. Non ci furono reazioni particolari davanti a quelle cadute. Più della metà erano scalze, le altre portavano le ciabatte a infradito. Nessuna scoppiò a piangere, ma in moltissime trattenevano le lacrime”. 

“È sempre peggio essere donna, dalla parte sbagliata della frontiera”.
“Con le donne è sempre uno strazio.
«Manco all’animali ci fanno le cose che fanno alle donne», fu tutto quel che il dottore riuscì a dire.
Per una donna è sempre peggio.
Gli stupri sono continui e ripetuti, individuali o di gruppo.
Ci sono bambine che arrivano incinte.
Ci sono donne trasformate in giocattoli, usate fino a che non si rompono”.

La ginecologa che
“Visitò proprio qui una donna infibulata e questo la scioccò potentemente. Aveva sì studiato l’infibulazione, ma non aveva mai visto niente del genere dal vivo. Quella fu l’unica volta in cui fu sconvolta da qualcosa, e stiamo parlando di una professionista con più di trent’anni di professione sulle spalle”.
Sono numerose le donne che arrivano incinte; sembra che siano lasciate andare perché non possono più essere utilizzate.
E, più di tutti, le donne hanno segni di ustioni: durante la traversata, stanno al centro dei gommoni dove si crea, sul fondo, una miscela di acqua, urina e benzina molto ustionante.
“Le ustioni dell’apparato genitale femminile sono una triste costante degli approdi”.

L’evento spartiacque è stato il naufragio del 3 ottobre 2013 con un’enorme quantità di cadaveri, trecentosessantotto, recuperati dal mare. I superstiti furono centocinquantacinque.
“C’era anche un feto appena espulso, ancora attaccato alla madre per il cordone ombelicale”.
In quei corpi un medico legale, che ha svolto le indagini di ispezione e riconoscimento cadaverico, ha trovato tutto quello che si può trovare in un corpo. Ipotermia, disidratazione, denutrizione, percosse, ferite da arma da fuoco, segni di violenza inaudita; nei corpi di donne giovanissime, quasi bambine, i segni di ripetute violenze sessuali; ancora i segni di bastonature, date nei carceri libici o sul barcone dove chi si lamenta vien buttato, vivo o morto, in mare.
Il racconto di Costantino è il racconto di tutti quelli che con la barca hanno cercato di salvare quei corpi, resi scivolosi dal petrolio, alcuni vivi e altri morti.
E ancora Simone, il sommozzatore che ha trovato, adagiato nel fondo del mare, il peschereccio affondato e i corpi morti, due erano abbracciati “A Dà, io nuoto e piango. Piango e nuoto”.
“Erano persone eppure parevano spugne“.

Sembra paradossale ma la mente si abitua alle atrocità per sopravvivere, “altrimenti si impazzirebbe”. Un ufficiale della Guardia Costiera, un samurai del Medierraneo, esce in mare con il suo equipaggio ogni ora del giorno e della notte, appena arriva una richiesta di soccorso, con qualsiasi condizione del tempo:
“Dopo anni, ci accade qualcosa di simile alla pelle esposta al sole. Quando si indurisce, diventa una corazza. Ma è quello che si ha dentro ciò che importa davvero. Parliamo di pietas, di esseri umani, di un tentativo disperato di ridurre il numero delle morti in mare fino a zero. Una battaglia folle, la nostra”. 
Questo samurai del nostro tempo racconta quanta attenzione bisogna fare prima di iniziare un trasbordo perché le persone si spintonano, hanno fretta di salire e rischiano di far rovesciare l’imbarcazione. Poi si verificano gli svenimenti appena una persona è salita “Sono persone sfibrate, non ce la fanno proprio più”.
E quando i barconi si rovesciano il mare si riempie di corpi, un momento li vedi e un altro no. Diventa una questione di tempo e velocità.
Diventa “la conta dei vivi e la conta dei morti”.
L’ufficiale ricorda quando un giovane del suo equipaggio aveva recuperato in mare un ragazzo che sembrava morto e ha fatto venti minuti di massaggio cardiaco riportandolo alla vita. Un miracolo.
Oppure quella bambina siriana che galleggiava nell’acqua tra gli altri corpi, in un naufragio accaduto l’11 ottobre, dopo quello spaventoso del 3 ottobre
“…c’era una bambina in mare… tale e quale mia figlia … galleggiava nell’acqua… la presi in braccio… era identica … in quell’istante mi ritrovai a vivere quella situazione… era uguale alla mia bambina… il taglio dei capelli… gli stessi lineamenti… mi turbò tantissimo… rimasi bloccato un paio di minuti… era uguale a mia figlia… mi sforzo di non pensarci più… mai più…”.

È una narrazione interrotta. Sembra un susseguirsi di immagini che ti si fissano nella mente.

Gabriella è un medico, non ha ancora trent’anni.
Racconta la sua prima uscita di soccorso con la Guardia Costiera. I traumi sono anche di chi va a soccorrere senza riuscire a farlo e vede le persone morire.
“In pochi hanno capito il dolore che mi porto dentro tuttora. Ventinove morti. La metà dei cinquantotto saliti nella nostra motovedetta. Non erano quattro, non erano cinque, non erano sei. Erano ventinove. Ogni giorno è una perdita”.

Il mediatore culturale racconta di un ragazzino che non rispondeva a nessuna domanda, non parlava, non dormiva, non mangiava e se ne stava seduto contro un muro con la testa tra le mani, al Centro. Un giorno il ragazzino scomparve e il mediatore lo ritrovò davanti alla chiesa del paese. In inglese gli chiese cosa desiderava più di tutto e il ragazzino gli rispose che era partito da otto mesi e non aveva potuto far sapere alla madre che era ancora vivo. Aveva dodici anni.

Sul dorso più alto dell’insenatura a Cala Pisana c’è il cimitero. Paola sul cemento, dove c’erano solo date, ha inciso iscrizioni con le circostanze della morte in mancanza di nomi.
Vincenzo ha scavato le tombe, ha piantato gli alberi. Vincenzo si era sempre occupato del cimitero e dopo la pensione ha continuato a scavare per questi morti sconosciuti.
I primi che ha sepolto erano undici uomini e una donna. Sulla tomba della donna ha piantato un oleandro per darle protezione e intimità, almeno lì. Su tutte le tombe ha messo una croce di legno
“Per me nessun esser umano è diverso dagli altri, qua le persone le trattiamo così, li seppelliamo nella terra sotto l’ombra della croce, perché siamo tutti quanto uguali. Possiamo esser neri, verdi o rossi, ma dentro abbiamo tutte le ossa bianche”.

Le nostre parole non riescono a cogliere appieno la loro verità…
Le nostre parole possono raccontare di mani che curano e di mani che innalzano fili spinati. Ma la storia della migrazione saranno loro stessi a raccontarla, coloro che sono partiti e, pagando un prezzo inimmaginabile, sono approdati in questi lidi. Ci vorranno anni. È solo una questione di tempo, ma saranno loro a spiegarci gli itinerari e i desideri, a dirci i nomi delle persone trucidate nel deserto dai trafficanti di uomini e la quantità di stupri che può subire una ragazza in ventiquattro ore. Saranno loro a spiegarci l’esatto prezzo di una vita in quelle latitudini del mondo. Narreranno a noi, e a loro stessi del carcere in Libia e delle botte prese a ogni ora del giorno e della notte, della visione improvvisa del mare dopo giorni di marcia forzata e del silenzio che si impone quando s’alza lo scirocco e si è in cinquecento su un peschereccio di venti metri che sta imbarcando acqua da ore. Saranno loro a usare le parole esatte per descrivere cosa significa approdare sulla terraferma, dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria, inseguendo il sogno di una vita migliore. E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostraci, come uno specchio, chi siamo diventati noi”.

Davide Enia
Appunti per un naufragio
Sellerio, 2017

8 Comments

  1. Brava, Gina! Agghiacciante, Non credo che lo leggerò. perché non me la sento, e ammetto tutta la mia viltà! Sono alla fine della tua bella pagina in lacrime, ma lo so che non basta! Un caro saluto.

    Piace a 1 persona

    1. La lettura è scorrevole, sono i racconti che ti lasciano male. Soprattutto perchè sai che sono reali. È come mettere insieme tante informazioni che dai media prendiamo a pizzichi e bocconi. Qui si compongono in un quadro generale.
      Un caro saluto anche a te

      "Mi piace"

    1. Sì, è vero che ci si sente impotenti. Ma sapere come stanno le cose può aiutare a combattere tanti pregiudizi. Anche se penso che sia proprio la paura di confrontarsi con queste tragedie umane, che toccano le sensibilità personali, a tenercene lontani.

      Piace a 1 persona

  2. Carissima, ho appena annotato il titolo sul mio quaderno
    Spero di leggerlo durante le vacanze natalizie
    Ho voglia di riprendere la vera lettura che in questo periodo ho lasciato da parte per i troppi impegni
    Un caro saluto e un augurio di una felice settimana
    Adriana

    Piace a 1 persona

Scrivi una risposta a natipervivereblog Cancella risposta